Intervista con Alice Pignagnoli, calciatrice

L’amore del calcio l’ha portata lontano, anche se ha dovuto lottare, sempre: da piccola, in casa, nella sua Reggio Emilia, è stato difficile far digerire il fatto che una femmina era appassionata di uno sport maschile, da grande e già famosa, ha incassato un grande dispiacere quando è stata messa da parte dopo l’annuncio dell’arrivo del suo secondo figlio.


Alice Pignagnoli nel suo ruolo di portiera ha giocato oltre 250 partite in Serie A (l’esordio con il Milan) e B, con la Torres ha vinto una Supercoppa italiana e uno scudetto. Non si è mai arresa, raccontando a cuore aperto, in diverse interviste, le sue soddisfazioni, ma anche le grandi difficoltà di essere donna, calciatrice e madre. Emblematico il titolo del suo libro pubblicato per Minerva: “Volevo solo fare la calciatrice”. Oggi veste la maglia biancazzurra della Pro Palazzolo, squadra che le sta permettendo di conciliare le sue esigenze di mamma con quelle di campo. BET SHE CAN l’ha intervistata, come simbolo di una donna che fin da bambina ha saputo scegliere e perseguire quella che riteneva la sua strada.

Alice, com’eri da bambina?

Sono sempre stata molto solare ed energica. Mi facevo chiamare Alicio e mi tagliavo i capelli corti perché in quanto femmina non mi era concesso giocare a calcio. Per risolvere le pressioni di società, famiglia ed amici che mi dicevano “Una bambina non può giocare a calcio” io rispondevo “Allora sono un maschio, basta che mi facciate giocare”. Il mio era un voler sparire in mezzo agli altri. Il ricordo che ho di me è quello di una bambina coi capelli cortissimi e un pallone sottobraccio.

Essere una femmina ha influito sulle tue scelte scolastiche?

Grazie per la domanda che mi fa molto riflettere. So che essere femmina ha influito su molte cose. Non ci avevo mai pensato, ma ora che sono mamma di un maschio e di una femmina, capisco ancora di più come l’essere femmina possa incidere su tutte le scelte da quando nasci, quindi anche su quelle scolastiche. Io ho sempre cercato di “depurare” le mie decisioni dal mio sesso e ci sono stati dei momenti dove esasperavo questo aspetto, mi domandavo: “Perché questo non lo posso fare perché sono femmina?”.

Hai avuto difficoltà nel corso della tua carriera in quanto donna?

Ho avuto tantissime difficoltà nella mia carriera in quanto femmina: innanzitutto la mia famiglia non voleva che giocassi a calcio. Con la scusa che non esistevano squadre femminili mi ha fatto smettere di giocare quando ero bambina. Ho giocato per diversi anni a pallavolo, ma da ragazza sono tornata ad essere una calciatrice. Giocavo in serie A, ma una ragazza che gioca in serie A non è la stessa cosa di un maschio che arriva a giocare in serie A. Questo ha influenzato tutta la mia vita: quando ho vinto lo scudetto, mio marito giocava in eccellenza, ma guadagnava il doppio di me: lavoravo da professionista, ma guadagnavo come una dilettante. Ho dovuto prendere la decisione di scendere di categoria per costruirmi una famiglia e poter crescere i miei figli.

Cosa consiglieresti alle studentesse che vogliano intraprendere una carriera STEM?

Consiglio loro di non farsi dire da nessuno come devono essere e, soprattutto, che valgono meno di un uomo. È difficile lavorare negli ambienti maschili, e non parlo degli uffici, ma di tutta una società costruita a misura d’uomo dove tutte noi cresciamo. Un uomo, però, è diverso da una donna sotto tutti gli aspetti, fisico e mentale. La donna deve fare un “doppio salto”, però ne vale la pena. Per noi e per tutte le bimbe che verranno dopo di noi che sono le bimbe che eravamo noi. Tutte, tenendoci per mano, possiamo cambiare il futuro, facendo un passo alla volta, perché non è una cosa facile.

Quali sono gli stereotipi uomo/donna che secondo te ancora persistono ai nostri giorni?

Gli stereotipi uomo-donna sono una marea. Penso che ci vorrebbe un giorno per elencarli tutti, ma qui citerò solo quelli che davvero mi danno fastidio: “Le donne sono umorali, gli uomini sono forti” che offende entrambi, “L’uomo devo portare a casa la pagnotta e la donna occuparsi famiglia” un’affermazione che sembra appartenere agli anni ’20 del secolo scorso, ma che in realtà è ancora molto forte nella nostra società, “La donna non può essere disinibita sessualmente, altrimenti sarà bollata come una poco di buono, mentre l’uomo che seduce tante donne ha l’ammirazione di tutti” una cosa che non riesco ad accettare e che favorisce quella costruzione della figura maschile e di quella femminile seguendo sempre certi standard predefiniti, “Le donne sono frivole, pensano allo shopping e al make up, gli uomini pensano ai massimi sistemi, si dedicano alla politica e loro, sì, lavorano: non possono interrompere una riunione-fiume per andare a prendere i figli a scuola, le donne sì, tanto quello che fanno non è importante” sembra incredibile, ma anche questo concetto è ancora molto radicato, qui e ora.

Cosa pensi di BET SHE CAN?

Devo ammettere che non conoscevo BET SHE CAN, ma spesso mi chiedevo perché non esistesse qualcosa di simile. Diffonde un messaggio così importante, per oggi e per il futuro, che dovrebbe essere conosciuta e diffusa in ogni scuola, in ogni squadra, in ogni famiglia, diventare capillare. Tutti dovrebbero avere un adesivo attaccato sul petto BET SHE CAN, perché tutte le bambine, tutti i bambini, tutte le mamme e tutti i papà devono essere a conoscenza di questi strumenti in grado di distruggere gli ostacoli di genere. Le nostre bambine, le nostre ragazze sono purtroppo abbandonate in un momento difficilissimo che è la crescita. Penso soprattutto alle bambine, che vivono uno sviluppo fisico difficile da affrontare e che io paragono solo alla maternità. Queste stesse bambine, in un periodo così delicato di cambiamento, sono sottoposte ad una pressione sociale enorme. Aiutarle a fare delle scelte libere dagli stereotipi dev’essere un impegno preso a tutte le componenti della società, con l’aiuto di strumenti come quelli forniti da BET SHE CAN.

Ed ora alcune domande dal progetto “Anche noi reporter” 

Francesca (9 anni) “Che cosa ti piace del tuo lavoro?” Del mio lavoro mi piace tutto: il fatto che, attraverso il sacrificio, puoi raggiungere i tuoi obiettivi, nello specifico ruolo di portiere che ricopro, essere sola, ma all’interno di un gruppo, l’allenamento, stare con la mia squadra, essere un punto di riferimento per le mie compagne più giovani, fare per loro qualcosa che può davvero aiutarle. Su questo punto mi rifaccio un po’ al concetto di “madrità” lanciato dalla calciatrice statunitense Alex Morgan che si batte per la parificazione del calcio femminile a quello maschile: essere una madre simbolica per le ragazze più giovani, sentirle idealmente delle figlie alle quali lasciare il testimone ed aiutarle a spianare ancora un po’ di più quella strada che hai già spianato tu, in modo che fra cent’anni la società sia davvero diversa.

Elisa (8 anni) “Hai paura di qualcosa?” Le mie più grandi paure sono legate alla mia famiglia: ho timore che i miei figli possano soffrire e che l’amore fra me e mio marito possa finire.

Jasmine (10 anni) “Sei fiera del tuo lavoro?” Sì, tantissimo, perché ho combattuto molto per arrivarci, ho abbattuto tanti muri e, attraverso la mia storia, ne stanno cadendo altri. Sono molto orgogliosa per questo.

Irma (10 anni) “Sei famosa?” Non mi considero famosa, ma se anche una sola bambina, una sola donna ha trovato il coraggio di cambiare grazie al mio libro e alla mia storia, ho vinto. Alice bambina voleva solo giocare a calcio. Ho scelto di intitolare il mio libro “Volevo solo fare la calciatrice” proprio perché ha un doppio significato: da un lato esprime tutte le difficoltà che ho dovuto affrontare per realizzare il mio sogno, dall’altro fa riflettere su quanti cambiamenti questa storia ha avuto la capacità di operare: dal nostro contratto collettivo alla percezione del grande pubblico delle atlete, soprattutto nel calcio, spezzando altri, odiosi e logori stereotipi.